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  • Antonio Nicita

L'Italia digitale in affanno

Il comparto delle comunicazioni elettroniche e, più in generale, il tema dell’adozione dell’agenda digitale non vengono ricompresi tipicamente nel dibattito relativo alle opzioni di policy nei servizi pubblici locali. Le ragioni sono molteplici, ma la principale risiede nella circostanza che, pur essendo alcuni servizi di comunicazione elettronica classificabili come servizi di interesse pubblico, la loro naturale dimensione competitiva richiama mercati di dimensione quantomeno nazionale.

Secondo l’approccio regolatorio e antitrust europeo, i mercati rilevanti della gran parte dei servizi di comunicazione elettronica, sia fissi che mobili, hanno una dimensione geografica nazionale, con riferimento ai mercati retail, cioè alla domanda finale di tali servizi da parte dei consumatori. Nei servizi di telefonia sulla rete mobile la dimensione nazionale delle reti e dei servizi è necessitata dall’esistenza di economie di scala, tanto dal lato dell’offerta quanto da quello della domanda (effetti di rete) che fanno sì che la concorrenza avvenga quantomeno su scala nazionale. Gran parte degli operatori “mobili” operanti in Italia, quattro dei quali sono, pur con diverso grado, infrastrutturati, afferiscono poi a gruppi multinazionali di operatori telefonici e le recenti decisioni europee circa l’azzeramento delle tariffe di roaming internazionale accelerano le spinte verso futuri mercati sovranazionali. Nei servizi di rete fissa, invece, la dimensione nazionale dei servizi retail si rapporta a una tipologia di concorrenza diversa da quella osservata per la telefonia mobile, rispetto alla quale la dimensione locale dell’accesso alla rete può assumere un rilievo significativo, anche sotto il profilo della regolazione. Dunque, è sotto questo specifico profilo che la dimensione locale dell’agenda digitale assume rilevanza.

Una fondamentale differenza tra i servizi di rete fissa e quelli di rete mobile è la diversa dipendenza tecnologica degli operatori “nuovi entranti” dall’operatore identificabile come lo storico monopolista pubblico, in Italia rappresentato dal gruppo Telecom Italia. Nei servizi di rete mobile si assiste a una dinamica concorrenziale vivace, con una penetrazione record a livello europeo e internazionale, una riduzione significativa dei prezzi, investimenti in nuove tecnologie (LTE), la presenza di quattro operatori infrastrutturati e di un crescente numero di operatori mobili “virtuali” (ovvero di operatori che utilizzano la rete degli altri operatori). Nei servizi di rete fissa, invece, persiste la dominanza di Telecom Italia, pur con quote di mercato in costante declino, specie nei servizi a banda larga. Questa dominanza, per i servizi di rete fissa, non si misura, banalmente, con esclusivo riferimento alla quota di mercato detenuta a livello retail, ma per il tramite di una più sofisticata analisi economica dell’effettivo potere di mercato, ovvero della capacità dell’operatore dominante di intraprendere comportamenti indipendenti dalle reazioni dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori finali. In altri termini, la dominanza sussiste allorché le scelte dell’operatore dominante non subiscono credibilmente il vincolo tempestivo della disciplina della concorrenza, sia attraverso la minaccia “orizzontale” dei concorrenti (che, ad esempio, potrebbero entrare sul mercato o aumentare la propria consistenza, in presenza di rialzi di prezzo retail) sia attraverso la minaccia “verticale” dei clienti o dei consumatori (i quali, ad esempio, potrebbero migrare verso i concorrenti in presenza di rialzi di prezzo da parte dell’operatore o di degrado della qualità). Non vi è dubbio che, a oltre quin dici anni dalla liberalizzazione del mercato, la perdurante dominanza nei servizi di rete fissa da parte dell’ex monopolista pubblico sia alimentata dalla dipendenza tecnologica dalla rete di Telecom Italia, che avviene sul mercato dell’accesso alla rete. Gli operatori alternativi che desiderino entrare sul mercato hanno a disposizione una serie di opzioni, ciascuna caratterizzata da un diverso grado di dipendenza tecnologica dall’operatore dominante: a) accesso bitstream; b) accesso all’ultimo miglio (local loop unbundling, ULL); c) investimenti in fibra fino agli armadi di strada (FTTCab); d) investimenti in fibra fino all’edificio (FTTB); e) investimenti in fibra diretti al cliente finale (FTTH). Man mano che si passa dalla opzione a) alla opzione e) aumenta il grado di infrastrutturazione, e dunque di investimenti, da parte dell’operatore, in quanto aumenta la parte di “fibra” rispetto alla tradizionale rete in rame, che ha una capacità di trasporto dati limitata. L’accesso bitstream indica la tipologia di accesso alla rete per la fornitura di servizi di accesso a internet a banda larga meno infrastrutturata. In questo caso, l’operatore telefonico dominante (nel caso italiano Telecom) fornisce un servizio di accesso a banda larga a un cliente finale e, allo stesso tempo, mette a disposizione la medesima infrastruttura di telecomunicazione ai suoi concorrenti. Questa tipologia di accesso alla rete, però, non sottintende nessun accesso diretto da parte dell’operatore telefonico alternativo all’infrastruttura stessa: sarà l’operatore dominante a gestire, controllare e manutenere l’intera linea. All’altro estremo (FTTH, fiber to the home) vi è una connessione diretta all’utente finale con l’altissima capacità (fino a 300Mbit/s con le attuali soluzioni GPON) che la rete comporta. L’approccio regolatorio comunitario ha privilegiato, fino a oggi, una regolazione incentivante, volta a fissare il livello dei prezzi di accesso ai concorrenti in funzione del loro grado di infrastrutturazione, in modo da indurli a salire lungo la scala degli investimenti (ladder of investment). La scala dei prezzi di accesso alla rete dell’operatore dominante è stata così fissata in modo inversamente proporzionale al grado di infrastrutturazione degli operatori, inducendoli a decidere di volta in volta se essere autonomi (make) o acquistare in tutto o in parte servizi di accesso dall’operatore dominante (buy), ovvero se puntare a raggiungere prima una scala mini ma efficiente di clienti che, una volta acquisiti, potessero poi transitare in reti autonome ad alta capacità (buy to make).

Come ha recentemente ben fotografato il Rapporto Caio1 commissionato dal governo di Enrico Letta (redatto da Francesco Caio, Gérard Pogorel e Scott Marcus), il nostro paese presenta quattro Italie: a) alcune isole locali felici, caratterizzate da una elevata penetrazione a banda larga e ultra-larga, come nel caso del modello Metroweb di Milano (l’operatore che offre accesso a fibra spenta a tutti gli operatori) e delle oltre venti città interessate dal piano di copertura FTTCab di Fastweb; b) altre aree urbane caratterizzate da un numero elevato di centrali aperte alla disaggregazione dell’ultimo miglio (ULL); c) aree non ancora aperte all’ULL e nelle quali verosimilmente soltanto l’operatore dominante potrà realizzare nuovi investimenti; d) aree residue di pieno digital divide, nelle quali solo nei prossimi anni, grazie anche a un forte intervento pubblico, il mercato realizzerà nuovi investimenti per connessioni a banda larga su rete fissa. Il Rapporto ha poi analizzato i piani annunciati a oggi dai principali operatori, concludendo che Telecom Italia raggiungerà, entro il 2016, una copertura del 50% della popolazione, con soluzioni FTTCab ad almeno 30Mbit/s, investendo 1,7 miliardi di euro nel triennio 2014-2016; Fastweb coprirà il 20% della popolazione investendo 0,4 miliardi di euro nel triennio 2012-2014; Vodafone coprirà il 29% della popolazione entro il primo trimestre del 2017. Ne consegue, secondo il Rapporto, che il 25-30% della popolazione sarà servito da due o tre infrastrutture a banda ultra-larga in concorrenza; un ulteriore 20-25% (che potrebbe salire al 40-45% nel 2020) sarà servito dalla sola infrastruttura a banda ultra-larga di Telecom Italia; la parte rimanente continuerà a essere servita, in postazione fissa, dalla sola rete in rame, e quindi dalla sola rete a banda larga di prima generazione, a meno di interventi di finanziamento pubblico. Questa variegata situazione comporta che il nostro paese si colloca in un significativo ritardo rispetto agli obiettivi infrastrutturali 2020 dell’agenda digitale, che richiedono copertura a 30Mbit/s per il 100% della popolazione e avvio delle connessioni a 100Mbit/s per il 50% delle famiglie. In particolare, con riferimento alla copertura minima di 30Mbit/s l’Italia si collochi oggi all’ultimo posto in Europa e, sebbene abbia fatto progressi in termini di penetrazione, il nostro paese si posiziona sempre all’ultimo posto in termini di adozione dei servizi. È noto che l’Italia sconta un ritardo infrastrutturale dovuto all’assenza di infrastrutture via cavo. Ma è altrettanto vero che, dal 2005 a oggi, paesi che stavano dietro il nostro quanto a livelli di penetrazione e infrastrutturazione hanno fatto straordinari passi in avanti. Segno che esistono specificità nazionali che vanno studiate e rimosse, tanto dal lato dell’offerta (creazione delle reti) quanto dal lato della domanda (incentivazione all’uso di servizi digitali a elevata qualità, specie dal lato della PA). Questo preoccupante quadro non è peraltro compensato dai servizi di rete mobile. Sebbene, infatti, il nostro paese sia da anni tra i primi, a livello OCSE, in termini di penetrazione (assoluta e pro capite) di telefoni cellulari e di smart-phone, tablet e così via, la capacità disponibile è ancora limitata, in attesa di un pieno sviluppo della tecnologia LTE e LTE advanced, e l’utilizzo stesso di servizi a banda larga in mobilità è tra i più bassi d’Europa.

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