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  • Antonio Nicita

Bollette a 28 giorni?


L ’Agcom ha deliberato (Delibera n. 121/17/CONS) che l’unità temporale per la cadenza di rinnovo e fatturazione dei contratti di rete fissa deve essere il mese, affinché l’utente possa avere la corretta percezione del prezzo offerto da ciascun operatore e la corretta informazione sul costo indicato in bolletta per l’uso dei servizi.

Gli operatori hanno contestato che le attuali norme del Codice delle comunicazioni elettroniche consentano all’Autorità di disciplinare questa materia. Allo stesso tempo alcune associazioni di consumatori hanno rilevato che la misura adottata dall’Autorità sia corretta ma debba estendersi, per simmetria, anche ai servizi mobili.

Non intendo esprimermi su un tema che vedrà impegnata in altre sedi l’Autorità e i ricorrenti, ma vorrei svolgere una riflessione, del tutto personale, di carattere generale che va anche al di là dello specifico punto.

Il tema è quello di ripristinare un rapporto di fiducia tra il consumatore e l’erogatore del servizio in un settore così importante. Un rapporto che deve essere fatto di trasparenza e di facilità di comprensione dei termini delle offerte, anche per garantire quella comparabilità delle offerte che favorisce il libero gioco della concorrenza a beneficio dei consumatori finali.

Come ho scritto altre volte, la sfiducia del consumatore nei confronti delle nuove offerte o dei cambi unilaterali, operati dal fornitore, è ormai tale che anche quando un’offerta è conveniente per il consumatore, quest’ultimo manifesta comunque diffidenza e una naturale resistenza al cambiamento.

L’inerzia del consumatore è un fatto acclarato nei mercati liberalizzati, specie nei settori a rete, come dimostrano da anni i dati dell’European Barometer. Essa è dovuta a molti fattori. Tra i primi la tendenza a restare nello status quo, specie nei contratti ‘di durata’, quelli cioè che si rinnovano automaticamente (tipicamente la fornitura del servizio di telefonia fissa). La preferenza per lo status quo può essere dovuta ai meri costi del cambiamento (disdire un contratto, firmarne uno nuovo, esporsi al rischio di ritardi e così via), ma anche al rischio di esporsi a termini e condizioni che non si sono ben compresi o che possono poi cambiare senza che ce ne accorgiamo (per esempio nel caso di variazioni unilaterali dei prezzi che, secondo la normativa vigente, possono esser effettuate a patto di garantire il diritto di recesso al consumatore (opt-out)). Un’altra tendenza riscontrata è che coloro che cambiano fornitore (una minoranza) lo fanno un numero ridotto di volte. Il che, in mercati concorrenziali per prodotti omogenei, può non essere razionale, visto il proliferare di nuove offerte promozionali. E’ come se l’esperienza del cambio del fornitore riduca, anziché incrementare, la disponibilità a continuare a guardare al mercato e alla concorrenza per migliorare le proprie condizioni commerciali.

In questo quadro di inerzia si possono verificare due rischi, in qualche misura opposti: essere ‘trasferiti’ in contratti che sono meno convenienti, dati i nostri profili di consumo o date le offerte dei concorrenti; restare bloccati in contratti meno convenienti, quando ci converrebbe scegliere altre offerte o altri operatori.

Una delle condizioni per migliorare questo stato di cose è migliorare al massimo la trasparenza, rendere più facile la comprensione di ciò che viene offerto, rendere di facile lettura la comparabilità tra offerte concorrenti, comunicare al consumatore il proprio profilo di consumo.

Rendere il consumatore più attento, attivo e consapevole è interesse innanzitutto degli operatori che operano in un regime di concorrenza, oltre che dei consumatori stessi.

Passare da un contratto (di durata) con addebito e pagamento mensile ad uno con addebito e pagamento a 28 giorni (4 settimane) significa, come è evidente, accorciare il mese e allungare l’anno. A parità di prezzo ‘mensile’, ciò significa, di fatto, imporre indirettamente un aumento di prezzo annuo all’abbonamento, pari quasi ad un mese in più. Il tema non è l’aumento del prezzo annuale in sé – cosa che gli operatori possono fare garantendo in modo trasparente la parità di recesso – ma il fatto che ciò avvenga indirettamente e quasi surrettiziamente per mezzo di una variazione dell’unità di misura temporale. In contratti di durata, come sono tipicamente quelli della telefonia fissa, l’inerzia del consumatore è particolarmente rilevante e il ‘mese in più’ può essere scoperto solo dopo che è stato pagato.

D’altra parte se l’operatore intende modificare unilateralmente il prezzo, aumentandolo direttamente e garantendo un trasparente diritto di recesso, ciò può sempre essere fatto, a parità delle altre condizioni, quali il costo mensile addebitato. Non è affatto necessario modificare l’unità di misura dell’imputazione mensile dei costi per aumentare il prezzo. Il fatto che lo si faccia indirettamente, riducendo il tempo di addebito ‘mensile’, ha invece l’effetto di alimentare confusione informativa, riducendo trasparenza, comparabilità delle offerte, consapevolezza del consumatore.

Se poi, anche con una dinamica leader-follower, tutte le imprese man mano si adeguano a questo meccanismo, si realizzerebbe addirittura un punto focale di un equilibrio oligopolistico del quale andrebbe compresa la differenza tra parallelismo ‘razionale’ e pratica concordata restrittiva della concorrenza.

Nel caso poi della telefonia fissa si pone l’ulteriore problema di comparazione tra costi all’ingrosso di accesso alla rete dell’operatore incumbent (per i quali esistono canoni regolati dall’Autorità su base mensile) e prezzi retail fissati su un orizzonte ‘mensile’ diverso, una comparazione necessaria per la valutazione dei test di prezzo, al fine di garantire che non vi siano compressione di margini (margin squeeze) tra i prezzi al dettaglio operati dall’operatore incumbent verticalmente integrato e i prezzi d’accesso alla propria rete fatti pagare da quest’ultimo ai concorrenti. L’aumento dei costi di transazione regolatori per un’analisi compiuta della comparabilità tra wholesale e retail potrebbe finire per aumentare la confusione, la litigation, i costi stessi e la tempestività dell’azione regolatoria.

Restare su un orizzonte mensile ‘reale’ non elimina alcuna delle libertà commerciali delle imprese (possono sempre fare gli aumenti di prezzo previo assicurare il diritto di recesso) e assicura la comparabilità delle offerte e la consapevolezza del consumatore. Nel caso contrario, i costi sociali appaiono senz’altro superiori e i benefici per gli operatori sembrano fondarsi su una scommessa da un lato circa la scarsa reattività dei consumatori e dall’altro circa l’allineamento di tutti gli operatori alla stessa pratica.

Diverso è il caso della telefonia mobile nella quale, a causa della predominante presenza di schede ricaricabili e di possesso di più schede da parte dei consumatori, le preoccupazioni per l’inerzia tipica dei contratti di durata è meno rilevante. Oltre ovviamente all’assenza delle preoccupazioni di trasparenza e comparabilità circa il confronto wholesale/retail, dato che gli operatori mobili (non virtuali) hanno ciascuno una propria rete.

Il punto generale è poi che misure come quelle che ‘riducono il mese’ lasciando invariato il prezzo nominale mensile hanno proprio l’effetto di alimentare la sfiducia del consumatore nei confronti del proprio operatore. E questo è un male. Perché è vero che gli operatori fissi e mobili sono oggi impegnati a realizzare grandi investimenti (nella fibra, nelle frequenze, negli apparati) e che, a fronte di costi crescenti e di prezzi medi tra i più bassi d’Europa, essi devono trovare opportune risorse. Ma il recupero di risorse andrebbe fatto con un nuovo patto di trasparenza e di lealtà con il consumatore, spiegando chiaramente che - a parità di 'tempo' ovvero di imputazione mensile dei costi - incrementi di prezzo sono necessari per migliorare la qualità (misurabile dal consumatore e dal regolatore) della connessione. Ciò alimenterebbe la fiducia del consumatore, la sua disponibilità a sfidare l'inerzia e la sua partecipazione alla trasformazione digitale del paese.

E poi, la canzoncina diceva ‘mille lire al mese’.

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