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  • Antonio Nicita

3 Ottobre. E' il tempo della cittadinanza


Giorgio Marincola, partigiano afroitaliano.



Ho aderito a una manifestazione odierna per la cittadinanza ai nuovi italiani. La data di oggi non è casuale. il 3 ottobre del 2013 vi è stata stata una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo. Una imbarcazione libica usata per il trasporto di migranti affondò a poche miglia dal porto di Lampedusa. Il naufragio ha provocato 368 morti e circa 20 dispersi presunti. il medico Bartolo racconta del suo stupore, aprendo le cerniere dove erano stati conservati i corpi, vedendo che i bambini erano stati vestiti a festa: "Avevano le treccine, le scarpette, pronti per far vedere che erano bambini come tutti gli altri, come i nostri", ha ricordato Bartolo.

"Essere come i nostri". Che cosa significa? Innanzitutto una cosa banale, 'buonista' - scriverebbe qualche professionista del politicamente scorretto. Significa innanzitutto umanizzazione, cioè riconoscersi come simile agli altri. Ne sono piene le costituzioni liberali di questo principio. La 'dehumanization' è una precisa strategia retorica che punta invece a eliminare questo riconoscersi. Questa somiglianza dell'uomo all'altro uomo, questo umanesimo dell'altro uomo di cui scriveva Levinas. E dunque non solo lo straniero che ci invade, addirittura minacciando da inerme, con la sua povertà, con il suo naufragio, con la sua disgrazia, i confini della Patria. Ma uno straniero che non ha più la umanizzazione, che non ci somiglia più nemmeno come uomo. Cosa peraltro assai più facile se ha una pelle di un colore diverso. E così persino il naufragio diventa una colpa e i soccorritori criminali che attentano alla sovranità dei nostri confini. Un abisso dell'umanità che è ben rappresentato in un post Facebook di qualche anno fa, commentato da Enrico Mentana nel suo telegiornale. L'ennesiamo naufragio veniva commentano da una mamma "buon appetito pesci". Una mamma, sottolineava Mentana, che aveva una immagine del profilo, con due bambini con sotto la scritta “Verità sui fatti di Bibbiano #iostoconipiùpiccoli”. Che cosa può generare un simile baratro dell'umanità se non una strategia dell'odio organizzata, martellante, ostinata?

E' tipico di ogni strategia di hatespeech generare "dehumanization", rompere la somiglianza, generalizzare. Oggi è il colore della pelle a caratterizzare lo straniero-migrante. Pensate, un intero continente, molto più grande dell'Europa, rappresentato come un'unica cultura, un unico carattere, un'unica minaccia. La stessa. E poco importa se ci sono cittadini italiani africani, come i miei figli. Poco importa se ci sono stranieri italiani dalla pelle bianca. Poco importa se, per quanto ci sforziamo, ogni categorizzazione viene spiazzata dall'irriverente varietà e dalla ridente complessità delle nostre vite e delle nostre storie personali. Per molti, per troppi, è purtroppo il colore della tua pelle, sono i tuoi tratti somatici, a definire chi sei. E per molti, per troppi, questo è di per sé un pericolo. Anche grazie al racconto organizzato nei vecchi e nei nuovi media da certi gruppi (e non solo in Italia). La costruzione delle stereotipo si nutre di strategie consapevoli e di abitudini inconsapevoli. Un report dell'Associazione Carta di Roma documentava come in radio tv in Italia la parola al migrante africano venga data solo nel 7% dei casi e di solito non per avere un suo punto di vista, ma per rispondere a domande pre-confezionate o per confermare uno stereotipo. Eppure, come ha misurato Agcom, nell'epoca pre-Covid, per esempio nella campagna elettorale del 2018, i temi dell'immigrazione e della criminalità superavano il 50% del tempo di argomento. Ma si parlava sempre di loro. Loro, contro di Noi.

Questa equazione migrante-minaccia comporta che persino essere un cittadino italiano dalla pelle diversa influenzi la tua vita quotidiana, negli spazi pubblici, sui mezzi pubblici, nei ristoranti, nelle file al pronto soccorso. Persino nell'emergenza Covid19 vi sono gruppi e commentatori che sono capaci di affermare, nella stessa frase, che il COvid19 non sia pericoloso e che la nuova minaccia dei migranti sia quella di portarci il virus.

E poi ci sono gli italiani con un diverso colore della pelle che sono nati qui, o che qui hanno studiato. Che ti dicono 'Daje', come Amin e come Paolo, tra gli organzzatori della giornata di oggi. Come Soumalia, che è scappato dalla guerra in Mali, passando dall'inferno libico, e che non ce la fa proprio a sorridere.

Parlare della cittadinanza per i nuovi italiani significa oggi parlare del pregiudizio. Perchè un conto è il dibattito sulla politiche di gestione dell'immigrazione e dell'integrazione, un altro è pensare che la difesa dell'italianità passi anche dal mantenere un concetto monco di cittadinanza.

Una società democratica che non sia capace di riconoscere la cittadinanza a chi nasce o cresce in Italia, almeno nella formulazione del cosiddetto “ius culturae” è una società mutilata nel suo concetto di cittadinanza. Per tutti i cittadini. Per quelli di oggi e per quelli di domani. Oggi esiste un vero e proprio vulnus democratico in Italia, laddove a politiche restrittive sui flussi migratori si accompagna l’assenza di un riconoscimento minimo di cittadinanza italiana per chi nasce, vive o cresce in questo paese come qualsiasi altro cittadino italiano. In altri paesi, come ad esempio gli Stati Uniti d’America, politiche restrittive sui processi migratori sono controbilanciati da diritti pieni quali lo ius soli. D’altra parte, come dimostra il fenomeno sociale e criminale combattuto dal movimento Black Lives Matters, anche nel paese dove esiste lo ius soli possono manifestarsi forme di abuso di potere selettive, determinate dal pregiudizio, dall’odio razziale, dal suprematismo nazionalista bianco, da una profonda, ostinata e impaurita ignoranza.

E in Italia? Nel momento stesso in cui abbiamo aderito alle lotte del movimento Black Lives Matters, ci siamo resi conto che esso è nato comunque in un grande paese che lo ius soli lo riconosce, a differenza dell’Italia, dando così diritti, voce e voto anche alle potenziali vittime di atti discriminatori frutto della violenza razzista. Ciò significa che dire “Black Lives Matters!”, in Italia, assume un significato nuovo e più ampio. Non solo la lotta contro il pregiudizio e l’abuso di potere ma anche l’affermazione della dignità della cittadinanza ai nuovi italiani come pre-condizione per il funzionamento pieno del nostro sistema democratico e l’affermazione dei nostri principi costituzionali.

In Italia la costruzione retorica dell’immagine negativa e stereotipata del migrante e dello straniero, applicata automaticamente a chiunque sia percepito come non italiano, si manifesta infatti in un contesto giuridico che non riconosce alcun diritto, che non da alcuno spazio giuridicamente protetto  alla voce, al volto o al voto dei nuovi italiani. Chi è percepito come straniero, in Italia, è oggi solo il corpo estraneo della democrazia, il bersaglio muto di una propaganda di odio che non ammette repliche, non permette difese, non riconosce la dignità umana.

Per questo il riconoscimento dello ius culturae non riguarda soltanto chi non ha ancora la cittadinanza, ma tutti i cittadini italiani. Oggi il tema della cittadinanza, a partire dallo ius culturae, non serve solo a riconoscere la cittadinanza a chi non ce l’ha ancora ma anche a dare un significato più autentico alla nozione stessa di cittadinanza per chi ce l’ha già. Per questo è venuto il tempo della cittadinanza. Di una cittadinanza completa e autentica, per tutti. Anche per coloro che, già cittadini italiani, vogliono che la propria cittadinanza sia aderente allo spirito costituzionale.

E allora io guardo Amin e Paolo, giovani italiani neri, con accento romanissimo. Uno dei due è ancora in attesa della cittadinanza, dopo vent'anni. Li guardo con la stessa tenerezza con cui guardo i miei figli che si muovono spaesati, sorpresi e sospesi tra bandiere e canti in una piazza che parla di Italia, di Africa e di mondo. Mi chiedo come saranno quando avranno la loro età. Come vivranno in un paese così segnato e polarizzato, così intrappolato in questa cieca retorica dell'odio. Spero che, come Amin e Paolo, abbiano orgoglio e fierezza, consapevolezza di essere figli del mondo. Italiani e africani, certo. Ma figli di un mondo che vorranno amare e cambiare. Li guardo e mi scappa "si, daje!".

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